papa-francescoPapa Francesco e il Grande Imam Ahamad al-Tayyib il 4 e 5 febbraio scorso hanno firmato insieme il Documento sulla fratellanza umana, un testo condiviso per andare oltre le inimicizie e le divisioni, favorire il dialogo interreligioso e costruire insieme la pace e una società più giusta. All’ evento hanno partecipato settecento esponenti delle diverse fedi mondiali: cristiani di varie confessioni e musulmani, soprattutto, ma anche ebrei, buddhisti, hinduisti e sikh. Al cuore degli interventi è risuonato l’invito a uomini e donne delle proprie comunità perché traggano dalla religione non pretesti di contrapposizione, e tantomeno di guerra aperta, bensì motivi sufficienti per vivere fianco a fianco in pace e nel rispetto di tutti. Ha commentato la teologa musulmana (sciita) di origine iraniana, Shahrzad Houshmand Zadeh, che insegna alla  Gregoriana: «[Francesco] si accosta a questo mondo con atteggiamento paterno, di chi sa vedere il positivo. Colui che ha una fede autentica, non ha paura di valorizzare le bellezze dell’altro. Questa pedagogia positiva fa sì che esca dall’altro, anche se è un lupo, il meglio di sé». Lettura franca, da sottoscrivere.  Fra le tante interpretazioni che sono state date e che si sarebbero potute dare, ne scelgo una. 

Durante il viaggio aereo di ritorno Papa Francesco ha risposto alle domande dei giornalisti, rivelando quella che va considerata l’interpretazione del documento: l’incontro, si è posto infatti sull’onda lunga del concilio Vaticano II, mezzo secolo dalla sua celebrazione. Chi ha introiettato, almeno a partire dall’11 settembre 2001, lo schema mentale dello scontro di civiltà, non può che trovarsi spiazzato, a fronte delle immagini, degli abbracci e delle parole giunteci da Abu Dhabi.  Fino a superare persino la stessa metodologia del dialogo, per adottare quella, ancor più impegnativa, della fraternità: «Il punto di partenza – ha detto il papa – è riconoscere che Dio è all’origine dell’unica famiglia umana. Egli, che è il Creatore di tutto e di tutti, vuole che viviamo da fratelli e sorelle, abitando la casa comune del creato che Egli ci ha donato. Si fonda qui, alle radici della nostra comune umanità, la fratellanza, quale vocazione contenuta nel disegno creatore di Dio . Essa ci dice che tutti abbiamo uguale dignità e che nessuno può essere padrone o schiavo degli altri».  E il documento recita che «la fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare», e che è la stessa volontà di Dio a volere il pluralismo  e ogni diversità, di religione, di colore, di genere, di lingua. In una prospettiva che, si direbbe, supera addirittura il paradigma inclusivista, nel rapporto fra cristianesimo e religioni, e apre le porte a quello pluralista. La condanna ferma e ripetuta del fondamentalismo e del terrorismo, oltre che di ogni violenza e persecuzione provocate dalla strumentalizzazione delle religioni emerge non solo come una risposta all’emergenza odierna, ma come il pezzo decisivo di un mosaico in cui viene sottolineata la funzione positiva e propositiva delle religioni stesse nell’attuale stagione storica. Ed è stata notata, non da ultimo, persino un’eco esplicita del documento conciliare Gaudium et spes, dove nel preambolo si dice della condivisione delle «gioie, tristezze e i problemi del mondo contemporaneo».  Un’esperienza, quella della potenziale fratellanza, oggi non priva di contraddizioni, ma anche, se reale e non immaginaria, capace di farsene carico. Perché essere fratelli – e sorelle – non è solo un dato biologico o anagrafico (quando lo è) ma una meta da conquistare, giorno dopo giorno, spesso a fatica e a prezzo di parecchie sofferenze.  Come dimostra la storia, accidentata, problematica ma altresì ricca di esempi positivi delle relazioni fra cristiani e musulmani.  Rispetto alla quale siamo chiamati a educarci a diventare fratelli (e sorelle), se intendiamo prendere sul serio l’invito dei padri conciliari: «La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini» (Nostra aetate 3).  Non è detto che la cosa funzioni, soprattutto in tempi brevi.  In questo senso l’incontro di Abu Dhabi è stato un primo passo per rendersi conto che l’altro – piaccia o no – è parte di noi, e per imparare a camminare insieme. La misura di quanto è accaduto realmente in questi due giorni ce la fornirà solo il futuro, che comincia oggi, e risulterà o meno dalle tante situazioni di confronto e incontro quotidiano tra fedeli cristiani e musulmani. Senza mai dimenticare, come ha ricordato anche papa Francesco, che l’esperienza del dialogo «domanda il coraggio dell’alterità, che comporta il riconoscimento pieno dell’altro e della sua libertà, e il conseguente impegno a spendersi  perché i suoi diritti fondamentali siano affermati sempre, ovunque e da chiunque».